Non ci sembra casuale che il percorso di formazione di Antonio Borrelli abbia avuto una tappa cinese. Lì (siamo a Hong Kong, verso la metà degli anni cinquanta) è come se certe attitudini caratteriali e di lavoro dell’artista abbiano trovato il loro fondamento ‘filosofico’, attinto dalla visione e dal costume del popolo orientale: pazienza operosa, capacità di attendere e valutare le circostanze adeguate a uno scopo, ma anche un senso di partecipazione a un agire collettivo, proiettato verso il futuro.
«Sono un ottimista: ho bisogno però di un’indagine introspettiva prima di giungere a una visione ottimistica», è un’affermazione dello scultore stesso in un’intervista curata da Aurora Spinosa e Mario Franco, all’insegna appunto di quella ponderatezza e positività che definivamo orientali, tanto quanto si potrebbe dire di alcuni tratti specifici del suo lavoro artistico, come la spiccata artigianalità, la
capacità di accantonare e ri-utilizzare i propri conseguimenti, e una ‘progressiva costruttività’, cioè la cura di non separare, per quanto possibile, l’invenzione formale da un’utilità collettiva, sforzandosi di renderla di volta in volta decorazione quotidiana e comunitaria, ovvero contributo didattico.
Parlando di artigianalità tocchiamo l’altro aspetto della formazione artistica di Borrelli, avvenuta infatti inizialmente nell’ambito di una bottega orafa, che – fatta salva l’alta tradizione occidentale e specificamente napoletana nel campo – se vogliamo è già un piccolo mondo ‘cinese’, scandito da padronanza tecnica, progettazione e manualità attente, gusto decorativo e riutilizzo senza sprechi. Borrelli a questa sua origine di orafo, al di là delle molteplici realizzazioni di gioielli, resta legato nell’intimo, e custodisce ancora come un cuore segreto nello studio il suo antico banco di lavoro.
All’Istituto d’Arte di Napoli si completano infine negli annii cinquanta gli studi dell’artista, che può così elevare alla consapevolezza di arte scultorea il suo bagaglio tecnico, seguendo il solido magistero di Ennio Tornai e accogliendo da un altro docente, Romolo Vetere, sollecitazioni verso una sperimentazione più aperta alle correnti moderne.
Dopo le esercitazioni disegnative, in cui si evidenzia una spigliatezza di tratto e il gusto per l’espressività chiaroscurale (Mercato a Hong Kong), e una serie di piccoli smalti su rame eseguiti, forse anche a scopo didattico, sul finire degli anni cinquanta (allorché riceve incarico di insegnamento presso lo stesso Istituto d’Arte) con un’intonazione fiabesca quasi da medioevo popolare (Contadini; Santo francescano), Borrelli al principio degli anni sessanta realizza le sue prime prove scultoree, di carattere figurativo. In esse si contemperano suggestioni provenienti dall’arcaicità italica – attraverso un’indubbia mediazione esercitata dall’opera di Marini (Cavallino; Figura maschile) – e spunti orientati verso una visione più direttamente e modernamente realistica del fatto umano, come in Gruppo di modelli: in questa, come in qualche altra opera, la semplice, positiva coralità delle figure ci sembra uno dei risultati più personali e efficaci del Borrelli di questo periodo, al di là delle sue sorvegliate doti di modellazione.
Ma si tratta di un conseguimento provvisorio: la via a un realismo chiaro, fiduciosamente progressista nei contenuti, in quegli anni viene posta ormai in minoranza dal dilagare dei linguaggi di crisi esistenziale dell’uomo moderno.
Possiamo così assistere, verso il 1962-64, a una sorta di travaglio evolutivo nell’arte di Borrelli. Da una parte, con una consistente serie di disegni e litografie (che nel ’64 esporrà a Roma in una mostra personale) egli estremizza in senso espressionistico il precedente racconto sulla figura umana, dall’altra invece va portando la sua scultura su posizioni informali solo residualmente figurative. A ben vedere le due scelte sono piuttosto due versanti intrapresi dall’artista per accostarsi ai linguaggi di ‘crisi’ sopra citati.
Attraverso l’espressionismo delle litografie Borrelli tenta un cambiamento più di tipo contenutistico, trasferendo la figura umana in un clima di cupezza oppressiva, di nudità ed erotismo senza libertà e comunicazione: l’attualità del messaggio viene però inficiata dalla resa linguistica che, nella deformazione segnica e chiaroscurale, tende ad andare indietro, risalendo a modelli pre e postbellici come
l’espressionismo tedesco o quello di Corrente. Così, ad esempio, il Gruppo di modelli della solare composizione in bronzo che abbiamo prima esaminato viene trasferito su carta (ed è uno dei primi casi della pratica borrelliana di rivisitazione di un tema o di uno spunto) nell’oscuro ritualismo di un assembramento di figure, che nelle tipologie e nel segno si riallacciano evidentemente alla Briicke.
Ma Borrelli trova la strada giusta per agganciare le nuove poetiche di ‘crisi’ attraverso l’altro tipo di cambiamento, ossia quello delle forme. L’innesco, come lui stesso racconta nel filmato-intervista per l’Accademia di Belle Arti di Napoli, si deve proprio all’interazione tra due aspetti che abbiamo già detto connotativi del suo fare arte, cioè la paziente manualità artigianale e la ri-utilizzazione. Siamo
sempre sul principio degli anni sessanta, e lo scultore decide di riprendere il soggetto del Cavallino attraverso però un’ardua variante tecnica, attuata con la saldatura di lamine ferrose. Il travaglio della realizzazione lo illumina: la sperimentazione tecnica non può ridursi a servire contenuti che hanno già trovato la loro completezza formale: essa deve portare verso nuovi linguaggi più liberi e attuali.
È con questa premessa che Borrelli intraprende la sua felice produzione scultorea informale. Siamo verso il 1963, e nelle prime opere realizzate certi umori espressionisti che si erano fatti strada nell’artista trovano finalmente un riversamento nuovo e completo nelle scabrità frastagliate dei pezzi di lamiera saldata, da cui si originano epifanie vagamente zoomorfe, portatrici di una tensione inquietante, allusiva di una natura animata dalle angosce dell’uomo contemporaneo.
Sono sculture eleganti, e chiaramente non ignare di alcuni dei migliori conseguimenti del momento in quest’area della ricerca informale sospesa tra neo-figurazione e astrazione organica: così la Figura alata si mostra in rapporto con il bestiario della Richier (cui avevano guardato in ambito napoletano anche Venditti e Cotugno), e il Volo istituisce confronti con la produzione di Ghermandi.
La persistenza di un residuo figurativo nella scultura informale di Borrelli è confermata dai lavori successivi.
Nell’Ipotesi spaziale presentata nel ’65 alla IX Quadriennale di Roma la totemicità verticale della forma evoca sia pure in modo dilacerato una figura umana e mostra analogie (oltre che nell’insieme, in dettagli come i monconi trasversali, o certe forature in sequenza) con i Trofei di Perez. Ma al di là della conoscenza tra i due artisti le somiglianze si spiegano anche meglio nel loro comune risalire al fertilissimo contesto della neo-figurazione esistenziale di matrice inglese, che nella scultura offriva a modello le aggressive
figure meccanomorfe di Paolozzi, e l’inquietante ieraticità degli esseri geometrizzati di Chadwick.
Relitto spaziale, altra opera esposta alla Quadriennale del ’65, induce invece nell’osservatore l’impressione di un’astronave, o anche di un naviglio militare. Ma se ruotassimo in senso verticale l’immagine ci troveremmo di fronte a una forma alquanto somigliante al totem
antropomorfo di Ipotesi spaziale: la metamorficità insita nei linguaggi materico-informali offre dunque – qui come in altri casi – all’attitudine al ri-utilizzo di Borrelli un’ottima possibilità di sfruttare la suggestività evocativa dei punti di vista differenti di una scultura, esaminati anche col sussidio del mezzo fotografico, di cui rivela peraltro un’eccellente padronanza.
Ma nel passaggio dal personaggio alla ‘cosa’ insito nel soggetto di Relitto spaziale la ricerca dell’artista mostra di aprirsi anche ad altre istanze del dibattito culturale di quegli anni, e più precisamente al tema della civiltà industriale e di un futuro tecnologico. Borrelli, ‘ottimista introspettivo’, sembra infatti in una serie di lavori quasi volersi appropriare, attraverso una mimesi costruttiva artigianale, dell”ordigno’ meccanico per poi restituirne una versione non del tutto tranquillizzante, ma in cui le sue implicazioni di dura e pura economia ed efficienza risultano in qualche modo superate dal libero rimontaggio e dalla ricollocazione fattane dall’artista in un futuro di avventura e di ricerche spaziali.
Nascono così fin sulla soglia degli anni settanta numerose opere, spesso accomunate da titoli come Ipotesi spaziali o Relitto spaziale (sono del resto gli anni della corsa allo spazio americana e sovietica), in cui le saldature di lamine, tondini, cannule e retini danno luogo a forme o più liberamente fantascientifiche (Ipotesi spaziale, 1964), o più apertamente connesse con la moderna quotidianità tecnologica, come nel caso di un’Ipotesi spaziale del 1968.
Il recupero e l’utilizzo in queste sculture di veri e propri frammenti di officina se da un alto pone Borrelli in sintonia con quanto negli anni sessanta andavano facendo anche altri artisti napoletani (si pensi alle ‘tavole’ di Barisani o Del Pezzo) dall’altro segnala delle tangenze con le poetiche newdada di assemblaggio, ad esempio di Colla e di César, sospese tra lirismo ironico e polemica antindustriale. Per questa via alcuni pezzi dello scultore possono arrivare a un brutalismo industriale di struttura e materia, come nella
sezione a nervature di un’Ipotesi spaziale del 1967-68, ma più spesso Borrelli si mostra attento a salvarne la valenza estetica, facendo entrare in gioco le finezze della sua pratica di orafo.
Così certe idee ‘primarie’ nel corso degli anni denotano un progressivo arricchimento per mezzo di un’apposizione di soluzioni decorative sempre più organizzate. I grumi a vista delle saldature delle prime opere si trasformano in una sottile ritmica di punti e segni, cui di volta in volta si aggiungono sequenze di tondini, chiodi, anelli, che conferiscono un’aria preziosamente elaborata ai lavori,
accentuata dal ricorso a un procedimento galvanico di cadmiatura del ferro, che li ricopre di una lucentezza argentea. È ad esempio il caso della ri-proposizione della già esaminata struttura totemica del ’65 in una Struttura spaziale del 1968, o di alcune Ipotesi spaziali databili verso il 1967, in cui la trasposizione ingigantita della sagoma di un coltello dà luogo a forme svettanti, peraltro non immemori,
specialmente in una versione, della lezione brancusiana.
È dunque nel segno della paziente manualità artigiana e del gusto decorativo da orafo che Borrelli qualifica infine la sua scultura informale, e il raggiungimento ormai di una completezza di risultati già preannuncia nuove implicazioni di ricerca. Difatti la Struttura spaziale esposta alla Quadriennale di Torino del ’68, così densa di estro decorativo e suggestività metamorfica, di n a poco trova
anche una traduzione in raffinato gioiello; di un’altra forma invece Borrelli, tramite uno studio fotografico, arriva a ipotizzare una versione portata alle dimensioni di grande scultura ambientale.
Sono due esempi di quella cura dell’artista a non separare la sua sperimentazione formale da un’applicazione ‘sociale’, volta a una fruizione intima e collettiva. Sulla soglia degli anni settanta riutilizzo di spunti formali e innovazione tecnica si combinano felicemente in una serie di opere grafiche realizzate con china e sottili strati d’argento, nella quali quasi con magia dagherrotipica riaffiora l’immagine delle principali sculture della stagione informale (si veda ad esempio Ipotesi spaziale del 1971).
Questa sperimentazione su carta, analogamente alle litografie di un decennio prima, segnala in Borrelli la fase preparatoria di una mutazione stilistica. Già nei titoli delle ultime sculture informali, qualificate spesso col termine di Struttura, viene del resto adombrato il desiderio di una costruzione più concettualizzata dell’immagine, in linea col mutare del clima artistico di quegli anni. Ma sul piano sostanziale non è ancora avvenuto un effettivo cambiamento di linguaggio. In aiuto invece arriva, sempre al principio degli anni settanta, lo sforzo di progettazione, ossia di meditazione formale e tecnica, richiesto ali’ artista da alcune commissioni pubbliche.
In particolare, l’ideazione degli Arredi per la Chiesa di Santa Maria del Buon Consiglio a Posillipo (1971-72), con l’articolata varietà delle soluzioni richieste (altare e tabernacolo, fonte battesimale, lampadari, portaceri, maniglie), sollecita Borrelli verso formule decorative che possano creare da un lato un’unità stilistica d’insieme e dall’altro un equilibrio tra modernità di linguaggio, chiarezza liturgica di lettura e realizzabilità tecnicoartigianale dei manufatti.
Ecco allora che l’artista comincia ad adottare il rigore e la semplificazione geometrica come un principio ordinatore per rileggere la ritmica decorativa del periodo informale. La frequenzialità serrata e brulicante, quasi barocca, dei segni di allora viene disciplinata così in andamenti ortogonali, dove il dinamismo è contenuto in un gioco più intellettuale di contrappunto tra cerchi e quadrati, e tra sottili
avanzamenti e arretramenti dei piani, e in cui le partiture decorative come di consueto sono impreziosite dalla esperienza di orefice dell’artista, evidente ad esempio nella fine rivisitazione del reticolo cloisonné su cui si fondano i bozzetti sia del Tabernacolo per Santa Maria del Buon Consiglio che di una grande Composizione coeva per la Scuola di Quartu Sant’Elena.
Per questa via la scultura di Borrelli realizza, nel corso dei primi anni settanta, il suo passaggio linguistico dall’informale a un’area di ricerca astratto-geometrica, caratterizzata dallo studio di forme e dettagli decorativi di tipo modulare, in grado di essere agevolmente riproposti, in progressività costruttiva’, dalla micro-progettazione di gioielleria fino alla grande scala della decorazione monumentale.
A riguardo ci interessa particolarmente la strutturazione e riproducibilità modulare di alcune sculture eseguite verso il 1972-73. Accomunate dal titolo di Struttura spaziale, esse sono formate da un nucleo circolare o ellittico, decorato da già noti contrappunti di elementi tondi e rettangolari, e attorniato da uno o più anelli ruotanti, posti quasi al modo di orbite astrali.
Se in qualche maniera si possono considerare come la prosecuzione geometrizzata della futuribilità spazialista delle Ipotesi del periodo informale , queste forme – studiate anche in riferimento alle differenti incidenze della luce – sono in realtà connesse con istanze più razionali, di tipo cinetico-percettivo, perseguite in quegli anni da alcuni filoni astrattisti, e non trascurano dunque di guardare alle ricerche del Bauhaus (di cui sicuramente Borrelli avrà condiviso gli assunti di progettualità polivalente e sociale), e
in particolare a quelle di Moholy-Nagy.
Queste Strutture spaziali mostrano, nella loro costituzione con semplici ma eleganti parti modulari, un’efficace duttilità di riutilizzo per progettazioni di natura e scala differenti, così che dopo alcuni anni una di esse, a nucleo circolare, viene riproposta nel pendaglio di una collana, mentre un’altra, ellittica, spazia addirittura dal riutilizzo in oreficeria a una scala gigante, in veste di decorazione per
l’atrio della Scuola San Giuseppe dei Nudi a Napoli.
Nel corso degli anni settanta si intensifica anche la produzione di gioielli di Borrelli, che, sempre secondo i principi della modularità geometrica, realizza una serie di pezzi di elevata qualità (Parure in oro e diamanti con moduli quadrati ricombinabili), talora giungendo a rispecchiarvi l’essenzialità assoluta della scultura minimalista, come nel caso della serie con A nelli; bracciale e collier a fasce
metalliche avvitate, o di un Anello con incastonatura a piramide tronca, che ricorda le forme geometriche primarie di Morris o Judd.
Ad ogni modo nello studio ripetuto, anche su carta e in pannelli di gesso, di schemi modulari, spesso attenti alle valenze cinetico-visuali (Ricerca, 1978), ci sembra che affiori in Borrelli, accanto al gusto sperimentale, l’impegno del didatta, che proprio in quegli anni si trasferisce dall’Istituto d’Arte Palizzi alla cattedra di Tecniche di fonderia presso l’Accademia di Belle Arti di Napoli. La cura della
formazione tecnica dei suoi allievi è difatti molto sentita dallo scultore, ‘maestro’ a tutto tondo, e rientra in quella tensione verso un’utilità ‘sociale’ del proprio lavoro di artista che abbiamo evidenziato già all’inizio del saggio, e della quale nel corso degli anni settanta un altro esempio è dato dal suo impegno nel sindacato degli artisti della CGIL.
La sua scultura intanto, sul finire degli anni settanta, evolve verso forme geometriche semplificate, in cui tuttavia il rigore minimalista viene bilanciato da sottili tensioni dinamiche create da linee irregolari di frattura – o meglio di ‘disincastro’ – nella forma e dai contrappunti tra superfici lisce e lucide e gli aggetti di lembi e margini, come ad esempio in Continuum del 1977. Di questa scultura, in cui è certo presente un confronto con le opere realizzate in Italia, partendo da una riflessione su Moore, da Giò Pomodoro e Andrea Cascella, Borrelli crea nel corso dei primi anni ottanta delle varianti modulari basate su accostamenti moltiplicati della forma (Incontri, 1982-84, ma ideato nel 1973), tuttavia a partire da questo decennio l’artista sembra anche adottare spunti di ricerca meno vincolanti.
Così in Ri-costruzione del 1980 egli ottiene una forma di bella purezza, dove ancora una volta le finezze di intaglio da orafo vanno a impreziosire con trafori solo apparentemente casuali la scarna geometria della stele-parallelepipedo. Il significato dell’opera rimanda al devastante sisma di quell’anno, nel senso di un ottimistico incitamento – sottolineato dal deciso slancio verticale dominante sulle
lesioni disgregative – alla rifondazione anche morale della Campania, alla quale lo scultore dedica anche lucide parole intervenendo sulla rivista «Arti visive». In Ri-costruzione si evidenzia anche la progressiva tendenza della scultura di Borrelli di questi anni verso una visione bidimensionale, in cui cioè la gran parte del messaggio formale è organizzato sulla superficie frontale. L’esito più consono a questa tendenza è naturalmente il bassorilievo, che in effetti l’artista adotta di frequente, come nel caso di una Composizione del 1985 in alluminio montato su pannello, che rivisita gli andamenti contrappuntistici (cerchio/ quadrato, avanti/indietro) adoperati in alcune opere dei primi anni settanta alla luce dei successivi interessi cinetico-visuali.
Nel corso degli anni novanta Borrelli oscilla, con quella variabilità di ricerca di cui dicevamo poc’anzi, tra un geometrismo più libero, che dà spazio persino a moderati andamenti organici della linea (si veda Incontro del 1993-94, confrontabile con la produzione di Consagra), e un minimalismo di tipo ottico-percettivo (Struttura ’95, quasi un omaggio a Bury).
Ma ci sembra significativo che in una delle ultime serie di lavori, costituita da bassorilievi in lastre di acciaio e da serigrafie, Borrelli ritorni al rigore geometrico costruttivista, organizzando le superfici metalliche e i fondi secondo incastri dialettici di chiari e di scuri, sottolineati appena da aggiunzioni rarefatte di sporgenze tonde o quadrate. La strutturazione scarna della forma, in cui anche la tensione dinamica sembra obbedire a una necessità funzionale quasi da macchinario, si connette con evidenza alla linea rivoluzionaria dell’avanguardia russa, e in particolare a El Lissitskij.
Borrelli, come l’artista sovietico convinto di una missione sociale e costruttiva di tipo ‘progressivo’ delle arti, malgrado i grandi rivolgimenti anzitutto politici che hanno caratterizzato la storia degli ultimi quindici anni, sembra così voler ribadire, quasi a suggello della propria carriera, la sua testimonianza di fede ideologica e estetica, e anche – augurandoci che ciò abbia la verità profetica delle migliori intuizioni degli artisti – la sua professione di meditato ottimismo circa l’avvenire dell’uomo.
Paolo Mamone Capria
