Dialogo con Antonio Borrelli

Fu Paolo Ricci, presentando in pubblico una delle prime volte il lavoro di Antonio Borrelli, ad usare il termine ‘orientale’ per indicare la sua ispirazione. Da allora la permanenza giovanile ad Hong Kong, fu sempre vista come una tappa determinante per il percorso artistico di Borrelli, anche quando, con l’uso del ferro e della fiamma ossidrica, l’artista si dedicò ad una nuova scultura che rompeva
decisamente con le sue precedenti realizzazioni, inserendosi nell’area dell’informale materico.
La prima domanda che gli poniamo riguarda, quindi, proprio il perchè della sua presenza in Cina e l’eventuale influenza che questa esperienza ha avuto sul suo percorso artistico.

«In realtà il mio viaggio ad Hong Kong avvenne quasi per caso. Da ragazzo, per sbarcare il lunario mi ero messo a fare le ‘fantasie’ per i guanti. Il mio datore di lavoro, un ebreo australiano di origine ungherese, si era trovato così bene a lavorare con me, che faceva di tutto per non perdermi. Allora, Napoli era una piazza famosa nel mondo per la manifattura dei guanti e molti industriali cominciarono a corteggiarmi per farmi passare con loro. Lui se ne accorse e fece di tutto per non perdermi. Mi propose di andare a Hong Kong, in Cina, dove stava per realizzare una fabbrica di guanti. Io ero giovanissimo e l’idea di un’avventura in un paese così lontano mi entusiasmò. Accettai subito e andai a Hong Kong, dove però non c’era niente e dovetti inventarmi tutto, ovviamente con l’appoggio economico del mio ebreo australiano.
Realizzammo una bella fabbrica di guanti, dove disegnavo ‘fantasie’ per guanti di stoffa. Ma il mio datore di lavoro voleva che la fabbrica facesse anche guanti di pelle e pensò di far venire a Hong Kong dei maestri guantai napoletani. Io non ero d’accordo: ero sicuro che i cinesi, con la loro capacità, si sarebbero presto impossessati delle nostre tecniche. Mi opposi per una sorta di orgoglio nazionalista all’importazione di questa specializzazione napoletana in Cina e decisi di tornarmene. Poi ci fu ancora un episodio che mi fece decidere di andar via. La fabbrica produceva a pieno ritmo e le commesse aumentavano. Allora il mio capo ebbe un’idea geniale, quella di raddoppiare gli spazi lavorativi della fabbrica, soppalcandola: “tanto i cinesi sono piccoli”, sosteneva. Io rimasi veramente indignato e decisi di andarmene. Pensavo, inoltre, che non avrei mai posseduto la padronanza della lingua cinese e capivo poco anche il loro gesticolare. A me piace, quando si parla, cogliere anche le sfumature: non solo le parole, ma anche il guardarsi negli
occhi, il gesto rivelatore di quello che uno pensa parlando.
Cosa è rimasto nei miei lavori dell’esperienza ad Hong Kong? Qualcosa nel mio gusto per il designer… Ed anche una certa qualità, che potremmo chiamare pittorica. Ho praticato gli smalti a fuoco, immediatamente dopo il ritorno dalla Cina. Ho diversi lavori di smalti a fuoco che, però, non ho mai mostrato né esposto».

L’esperienza ‘cinese’ dura circa due anni. Al ritorno Borrelli completa gli studi presso l’Istituto d’Arte Palizzi e quasi subito riceve un incarico di insegnamento nel Laboratorio di Oreficeria e Metalli.

«Il rapporto con l’Istituto d’Arte rimane per me un rapporto privilegiato, legato al ricordo di Romolo Vetere e Ennio Tomai, maestri davvero particolari: Tornai che era un classico innamorato della bella forma e Vetere che era l’opposto, uno sperimentatore e un trasgressivo … Entrambi di un’umanità che mi affascinava … Mi piaceva pensare d’essere un giorno come
loro. Quando mi fu offerta la possibilità di insegnare al Palizzi, per me fu la realizzazione di un sogno».

L’insegnamento è vissuto da Antonio Borrelli con passione. Lascia nei suoi allievi un ricordo profondo; con molti mantiene tutt’ora un rapporto d’amicizia.

«È importante avere un bel rapporto con gli studenti. Io cercavo di dare il meglio di me e di trasmettere competenza tecnica e amore per la ricerca; loro coglievano questa mia disponibilità e l’apprezzavano. Il rapporto con gli allievi è fondamentale: quando un maestro non instaura un rapporto – chiamiamolo pure ‘d’amore’ – con gli allievi, secondo me, sbaglia. Ci deve essere il piacere di stare insieme, perché non è facile far lavorare notte e giorno dei ragazzi. Quando per la fusione accendi il forno, devi seguire tutto il percorso per arrivare dalla cera alla forma. Il forno resta acceso tutta la notte e ci vuole chi si cura del fuoco: se non c’è passione e piacere non c’è neanche il risultato. lo con i miei allievi ho sempre lavorato bene, un po’ per fortuna e un po’ per la capacità di trasmettere entusiasmo. Ricordo alcune nottace passate nel mio studio con allievi e collaboratori. Lo studio era la chiesa sconsacrata della Solitaria. Si parlava, fumando sigarette e bevendo caffè. Si discuteva d’arte e di politica e, senza che ce ne accorgessimo, si finiva col fare l’alba. A volte c’era da realizzare un’opera che doveva essere presentata per un concorso, e la passione con la quale vivevo questo impegno
era contagiosa per gli allievi, che condividevano con me questi momenti, come nelle antiche botteghe d’arte … ».

Nel 1977 Borrelli lascia l’Istituto Palizzi ed accetta la Cattedra di Tecniche di Fonderia e Fusione presso l’Accademia di Belle Arti di Napoli. L’Accademia si sta rinnovando ed ha introdotto nuovi insegnamenti. Borrelli è convinto di poter portare in Accademia le sue competenze ed il suo entusiasmo, ritrovando, inoltre, alcuni degli studenti già conosciuti al Palizzi.

«Capii subito che con i colleghi dell’Accademia, sul piano operativo, non saremmo stati d’accordo. Non c’era colloquio tra le cattedre e non c’era affinità da un punto di vista artistico. Ma il rapporto con gli allievi è rimasto uno dei momenti più vivificanti. Per chi si dedica all’educazione, in tutti i campi, ci deve essere, secondo me, un rapporto scambievole. Quando si può dire “perdo qualcosa perdendo gli allievi” vuol dire che l’insegnamento funziona. Naturalmente ogni allievo ha un suo carattere e certe prerogative. L’impatto spesso è immediato e quello che trasmetti viene recepito con immediatezza, altre volte è più difficile. Ma mi ha fatto soffrire il distacco con gli
allievi, quando ho lasciato l’Accademia a settanta anni; sarei rimasto almeno altri due anni…».

Borrelli è un artista versatile, non riconducibile a formule di scuola o di tendenza. E forse per questo il suo rapporto con critici e storici dell’arte è stato difficile.

«Non saprei dirne il perché – dice l’artista – forse non ho saputo curare questi rapporti, e poi è cambiato il sistema dell’arte contemporanea e ci sono artisti che cercano di dare una definizione concettuale o un valore di mercato a loro cose che ancora devono esser fatte. lo non cerco giudizi preventi\iamo sperimentare tecniche e materiali diversi, dal gesso alla carta, dall’alluminio al laminato metallico. Mi piace lavorare sia da scultore che da designer… Lavoro indipendentemente con grandi dimensioni o producendo gioielli. In verità ho sempre affrontato con una certa disinvoltura la ministruttura e la maxistruttura. Mi veniva naturale esprimermi nell’uno e nell’altro modo proprio perché ero nato orafo, pensando al gioiello, all’ornamento femminile, per poi pensare in grande, senza difficoltà. Per questo ho sempre preferito il metallo: ho fatto ‘metalli e oreficeria’ all’Istituto d’Arte e a casa lavoravo
dall’argento all’oro – qualche volta il platino – con grande padronanza e nessuna difficoltà. Partendo dalla forma di alcuni gioielli ho ricavato sculture anche di sei metri, e viceversa. Un esempio tipico è quello delle maniglie che ho realizzato per la chiesa di Piedigrotta, partendo da un design utilizzato per alcuni miei gioielli dalle forme mobili, dall’incastro mutevole».

Intorno agli anni sessanta, Borrelli aveva già abbandonato la scultura tradizionale per utilizzare nuove tecniche e nuovi modi d’esprimersi.

«Romolo Vetere, che è stato il mio maestro, praticava la saldatura ossiacetilenica, con il cannello di ossigeno e di acetilene, e anch’io cercai di realizzare delle cose figurative con questo nuovo mezzo. Infatti, un cavallino rampante, che avevo realizzato ‘a cera persa’ in bronzo, lo replicai, quasi uguale, in ferro saldato. Mi resi conto, però, che con nuovi procedimenti, non potevo fare quello che si faceva con tecniche tradizionali e capii che questo nuovo modo d’esprimermi mi consentiva di affrontare possibilità nuove, di maggiore libertà. Fare una scultura in bronzo oppure in ferro comportava programmazioni diverse per l’uno o l’altro modo, perché influiva non poco la scelta dei materiali e delle tecniche per la realizzazione. Era molto più bello riuscire a realizzare il pensiero della … ‘cosa’ – con il suo elegante understatement, Borrelli usa con parsimonia il termine ‘opera’ [ndr] – direttamente e immediatamente: certo ci vuole una certa padronanza del mezzo che stai adoperando per arrivare immediatamente a ciò che hai in mente. Se lavoravi in bronzo, dovevi prima realizzare un bozzetto in creta, poi trasformarlo in gesso, poi in cera ed infine fonderlo. Diverso era il caso di quando con ferro o acciaio potevi procedere con un’immediatezza senza ripensamenti: il materiale diverso ti portava a pensare immediatamente la modellazione, senza la mediazione di alcuni passaggi».

Borrelli comincia a creare oggetti indecifrabili, residui fantascientifici, scarti di una lontana catastrofe interplanetaria, reperti di un futuro remoto e minaccioso.

«Erano gli anni dello Sputnik, delle conquiste spaziali e dunque molte di queste cose le chiamai ‘Ipotesi spaziali’ o ‘Relitti spaziali’. Era, per me, un modo di descrivere l’impatto con questa realtà nuova, questo ‘nuovo’ che incombeva. La mia adesione all’informale parte con la rottura dal figurativo, ma c’è sempre un’immagine o una forma che esce quasi naturalmente, operando. Le modalità espressive si adeguavano a questi cambiamenti, anche se, tecnicamente, il discorso si fa più complesso. Un saldatore, guardando le mie opere, si sarebbe interrogato sul responsabile di tali pazzie. Perchè erano autentiche follie: per alcuni oggetti particolarmente minuscoli non potevi usare neanche la maschera ed erano tanti punti di saldatura. Mi ricordo che a volte uscivo dallo studio rosso come un gambero e molto spesso mi sono bruciato gli occhi (e sono stato fortunato) ed a volte sono dovuto correre in ospedale …».

Il rapporto con gli allievi resta un punto fermo nel percorso artistico ed esistenziale di Borrelli. Nella sua visione del processo di crescita e di maturazione dei giovani allievi ha una fondamentale importanza il radicarsi di una identità culturale e civile fortemente ancorata al territorio ed alla tradizione, anche se scevra da localismi. Questa identità, così come la padronanza delle tecniche, occorre che venga acquisita fin dalla più tenera età, per potersi misurare con la scienza e l’arte contemporanea, stimolando la fantasia e la
creatività oltre che la conoscenza. Per questo è necessario lavorare insieme, acquisire competenze, promuovere reciprocamente il confronto di idee.

«Il discorso dell’apprendimento di certe tecniche, che sono anche percorsi mentali, tipico del giovane che una volta frequentava la bottega orafa – parlo ad esempio del Rinascimento e di epoche precedenti – e dopo faceva anche lo scultore, consisteva nel praticare certi passaggi non solo tecnici, ma anche di formazione profonda sul tipo di materia e di ricerca. Un po’ come avviene ancora oggi per il conservatorio, dove il ragazzo deve cominciare a usare lo strumento sin da giovane età, e non può cominciare a 30 anni e neanche a 20, perché è necessario che il percorso inizi nella fase della crescita di un ragazzo. Trasportare un oggetto in un gioiello o una scultura in un gioiello non è sempre possibile: devi possedere un mestiere che te lo consenta. Parlo della bottega rinascimentale perché allora lo scultore non solo modellava l’opera ma la trasportava fino alla fusione e alla cesellatura, cioè faceva tutto il percorso, mentre ora si è tutto frammentato. Allora lo scultore era anche orafo, molto spesso iniziava proprio frequentando la bottega dell’orafo e poi, se ne aveva i mezzi, faceva anche lo scultore».

Mario Franco

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